“L’industria è 4.0 se dialoga con le materie umanistiche. Dobbiamo puntare sulle digital humanities”. Domenico Siniscalco è uno degli economisti italiani più autorevoli. Studi alla London School of Economics, vasta esperienza internazionale (è vicepresidente della Morgan Stanley) ma anche una solida pratica politica e di governo (è stato ministro dell’Economia, oltre che direttore generale di quel ministero). Uomo di teoria e di pratica, dunque. Con un occhio particolarmente attento all’economia reale e alla finanza d’impresa. Insiste sulla centralità degli investimenti sull’innovazione e sulla manifattura high tech. E in una intervista al Corriere della Sera/ Torino definisce l’importanza di alcune scelte culturali e formative, come base per uno sviluppo solido ed equilibrato della sua regione, il Piemonte e del sistema Paese.

Innovazione, dunque, usando bene i fondi del Pnrr che vanno destinati a investimenti per l’ambiente e l’economia digitale (due dimensioni che si incrociano, nel legame virtuoso tra competitività e sostenibilità, in cui proprio l’industria italiana vanta posizioni d’eccellenza europee). E per la formazione.

Ecco il punto cardine: quale formazione? Siniscalco sa bene che le imprese sono alla ricerca di profili professionali tecnici che non trovano e chiedono capitale umano specializzato, ingegneri, matematici, chimici, data scientyst, esperti di digital economy, laureati nelle materie Stem (l’acronimo che indica science, technology, engineering e mathematics). E parlando di cultura e manifattura sostiene: “Le materie Stem vanno benissimo. Ma sarebbe il colmo che da un mondo tutto umanistico, come nel passato, andassimo verso un mondo tutto tecnico. Bisogna anche puntare sulle digital humanities. Università e Politecnico vanno messi a sistema. Innovare, insomma, significa mettere insieme in modo innovativo vecchi fattori, come diceva Schumpeter”.

L’orizzonte cui anche Siniscalco fa riferimento è quello della “cultura politecnica”, come sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, senso della bellezza e sofisticata capacità di utilizzo delle tecnologie informatiche, design ed efficienza produttiva. E proprio quest’espressione, “cultura politecnica”, è patrimonio di alcune delle migliori imprese multinazionali italiane, dalla Pirelli a Leonardo, dalle industrie dell’automotive alle aziende della chimica e delle life sciences, oltre che naturalmente dei settori tradizionali delle eccellenze del made in Italy, a cominciare dall’arredamento.

Per competere, secondo i nuovi paradigmi dell’economia circolare e civile, servono conoscenze e competenze multidisciplinari: ingegneri-filosofi, medici-ingegneri, esperti di cybersecurity, psicologi e sociologi con una robusta formazione tecnica, architetti con una solida preparazione adatta ad affrontare i nuovi aspetti della transizione ambientale e digitale, giuristi in grado di definire regole e sanzioni per tutte le evoluzioni della Rete, “metaverso” compreso. D’altronde, sono anni che gli studiosi delle trasformazioni del mercato del lavoro avvertono che metà delle professioni che i nostri figli e nipoti faranno tra vent’anni non sono state ancora inventate.

Sono considerazioni ancora più valide oggi, nel tempo in cui la diffusione dell’Intelligenza Artificiale e la profonda e sempre più accelerata trasformazione dei meccanismi di produzione, scambio e consumo chiedono la definizione di nuovi codici di quello che Luciano Floridi, filosofo attento all’etica dell’informazione, chiama “Onlife”, sollecitando dunque un “governo dell’infosfera”, per costruire orizzonti di senso e regole giuridiche dei sistemi urbani da smart cities, delle attività produttive dense di tensioni distruttive ma anche di nuove opportunità di lavoro, delle relazioni economiche definite secondo i valori della sostenibilità ambientale e sociale. Una cultura da green e blue, per dirla con l’efficace sintesi delle ultime riflessioni di Salvatore Veca che, proprio nella Milano metropoli densa di storia sociale, cultura scientifica e valori di solidarietà, individua il paradigma nazionale e internazionale di un possibile sviluppo che sappia usare bene le tecnologie per salvare città e cittadini da antiche e nuove disuguaglianze, dai divari digitali, generazionali, di genere e cultura.

È il tempo, appunto, delle competenze trasversali. Dei neuroscienziati. E dei cyberfilosofi, per elaborare gli algoritmi indispensabili alle trasformazioni industriali e dei servizi ma anche per capirne e indirizzarne il senso, riflettere sulle loro conseguenze per la vita delle persone, affrontare gli inediti temi morali e sociali che l’evoluzione tecnologica man mano pone, lavorando su bioetica, tecnologie dell’informazione, diritto e neuroscienze.

I Politecnici di Milano e Torino organizzano attività di formazione in questa direzione. E l’orizzonte di riferimento si può anche rintracciare nelle indicazioni di un libro di grande attualità, come “Le nuove leggi della robotica. Difendere la competenza umana nell’era dell’Intelligenza Artificiale” di Frank Pasquale, professore alla Brooklyn Law School, edito dalla Luiss University Press: lavorare sulla “intelligenza aumentata” e definirne valori, potenzialità, limiti e dunque regole significa usarne le possibilità positive e circoscriverne gli effetti negativi.

“Il salto tecnologico richiede una nuova coscienza digitale”, insiste Mauro Magatti, sociologo all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore tra i più attenti delle implicazioni morali e sociali del “cambio di paradigma” economico in corso: “Il web non può essere una giungla caotica dove prevale la legge del più forte. Ed è dunque urgente rafforzare l’infrastruttura istituzionale – fatta di regole e limiti nazionali e sovranazionali – per contrastare gli evidenti squilibri di potere oggi esistenti e favorire la valorizzazione delle tante potenzialità che si aprono grazie alla Rete”.

Con l’approvazione del Digital Services Act l’Europa ha già definito delle scelte interessanti in tal senso. E l’Italia, proprio per la complessità della sua cultura scientifica, economica e sociale e per le sue capacità di interpretare “le dimensioni antropocentriche, affidabili e sostenibili” dell’Intelligenza artificiale, può essere un ottimo punto di riferimento. Molta altra strada resta comunque da fare.

Torniamo, così, al suggerimento di Siniscalco sulle digital humanities. E alla necessità di una originale cultura politecnica. Sfida culturale e sociale, che economica. E sfida per i sistemi di formazione.

di Antonio Calabrò

Fonte: https://www.huffingtonpost.it/blog/2022/01/25/news/l_umanesimo_digitale_e_la_nuova_sfida_per_le_attivita_di_scuola_e_imprese-7604374/